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La corona del pignone - racconto a più mani -
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Keishiro
Willhelm Ewing
Sonia Drechsler
Carolus
8 partecipanti
Pagina 1 di 1
La corona del pignone - racconto a più mani -
Marco non aveva compiuto ancora 18 anni, ma le auto non avevano segreti per lui. Di amici ne aveva pochi, definirli poi amici era una approssimazione, in realtà erano dei semplci conoscenti che si trascinava dai tempi delle elementari.
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e fu proprio per questo che andavano d'accordo.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....
...passo la mano ad Helmer....(poi Helmer indicherà il successivo)
...dimenticavo...unica regola...scrivere di getto (e si vede..)
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e fu proprio per questo che andavano d'accordo.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....
...passo la mano ad Helmer....(poi Helmer indicherà il successivo)
...dimenticavo...unica regola...scrivere di getto (e si vede..)
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Eppure sentiva che gli mancava qualcosa... si, tutto il giorno con le mani nei motori, o sdraiato sul carrello sotto le macchine.
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
(a te Sonia)
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
(a te Sonia)
Ospite- Ospite
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Arturo era un meccanico come non se ne trovano più. Oggidì le officine sembrano sale operatorie, con la reception e le poltroncine per i clienti in attesa, le signorine al computer e gli appuntamenti. I meccanici hanno tutti il camice, attaccano cavi e cavetti alla tua automobile, fanno un check-up di tutto ciò che non va e leggono la diagnosi su un monitor. Hanno le mani pulite, e bianche e pulite sono le pareti.
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
La continuazione a.... Will?
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
La continuazione a.... Will?
Sonia Drechsler- Moderatore
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La corona del pignone
Marco non aveva compiuto ancora 18 anni, ma le auto non avevano segreti per lui. Di amici ne aveva pochi, definirli poi amici era una approssimazione, in realtà erano dei semplici conoscenti che si trascinava dai tempi delle elementari.
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e fu proprio per questo che andavano d'accordo.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....eppure sentiva che gli mancava qualcosa... si, tutto il giorno con le mani nei motori, o sdraiato sul carrello sotto le macchine.
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
Arturo era un meccanico come non se ne trovano più. Oggidì le officine sembrano sale operatorie, con la reception e le poltroncine per i clienti in attesa, le signorine al computer e gli appuntamenti. I meccanici hanno tutti il camice, attaccano cavi e cavetti alla tua automobile, fanno un check-up di tutto ciò che non va e leggono la diagnosi su un monitor. Hanno le mani pulite, e bianche e pulite sono le pareti.
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
La continuazione a.... Will?
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e fu proprio per questo che andavano d'accordo.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....eppure sentiva che gli mancava qualcosa... si, tutto il giorno con le mani nei motori, o sdraiato sul carrello sotto le macchine.
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
Arturo era un meccanico come non se ne trovano più. Oggidì le officine sembrano sale operatorie, con la reception e le poltroncine per i clienti in attesa, le signorine al computer e gli appuntamenti. I meccanici hanno tutti il camice, attaccano cavi e cavetti alla tua automobile, fanno un check-up di tutto ciò che non va e leggono la diagnosi su un monitor. Hanno le mani pulite, e bianche e pulite sono le pareti.
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
La continuazione a.... Will?
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Fu quando si stava avvicinando il suo compleanno, che avrebbe segnato l'entrata nel mondo dei "grandi", che Marco si rese ad un tratto conto di aver sempre vissuto in una sorta di limbo, in un suo mondo totalmente privato da cui aveva escluso tutto ciò che lo circondava: niente amici, niente affetti familiari, nulla di nulla; una bolla riempita solo da silenzi, dagli sbuffi di fumo della sigaretta di Arturo, da pistoni e bielle intrise dell'acro odore dell'olio bruciato.
Queste riflessioni gli sorsero un giorno in cui se stava appoggiato alla porta dell'officina a cogliere il tepore di un pallido sole autunnale. In quel tratto di strada non c'era praticamente anima viva, non una macchina, non una persona; sembrava che tutti avessero deciso di chiudersi in casa per mutuo accordo, senza una ragione apparente.
Marco si sentiva a disagio e cercava di comprendere quella nuova inquietudine che gli nasceva dentro, quando improvvisamnete si senti osservato. Alzò gli occhi e vide due occhi sorridenti che lo guardavano dall'altro lato della strada: era Giuseppina, che tutti chiamavono Giusy, la commessa dell negozio di fiori che stava di fronte all'officina.
Giusy era uno dei tanti visi, quasi anonimi, che popolavano la sua vita, ma quel giorno, quel viso sorridente gli diede una pace interiore che non aveva mai provato in vita sua.
continuazione a.... Pallina?
Queste riflessioni gli sorsero un giorno in cui se stava appoggiato alla porta dell'officina a cogliere il tepore di un pallido sole autunnale. In quel tratto di strada non c'era praticamente anima viva, non una macchina, non una persona; sembrava che tutti avessero deciso di chiudersi in casa per mutuo accordo, senza una ragione apparente.
Marco si sentiva a disagio e cercava di comprendere quella nuova inquietudine che gli nasceva dentro, quando improvvisamnete si senti osservato. Alzò gli occhi e vide due occhi sorridenti che lo guardavano dall'altro lato della strada: era Giuseppina, che tutti chiamavono Giusy, la commessa dell negozio di fiori che stava di fronte all'officina.
Giusy era uno dei tanti visi, quasi anonimi, che popolavano la sua vita, ma quel giorno, quel viso sorridente gli diede una pace interiore che non aveva mai provato in vita sua.
continuazione a.... Pallina?
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Giusy passava davanti all'officina ogni sera. Come ogni sera tornava a casa dopo una giornata spesa al negozio di fiori. Le piaceva quel lavoro perchè aveva sempre amato circondarsi del loro profumo e dei loro mille colori. In particolare amava i girasoli, grandi, di un colore giallo intenso e a volte, nei momenti morti della sua giornata lavorativa, ne prendeva uno dal grande vaso di ceramica posto vicino al tavolino che fungeva da cassa e lo portava sulla testa a mo di ombrello. Danzava col suo ombrellino fatto di petali gialli, roteava su se stessa seguendo le note scandite da una piccola radio posta sullo scaffale tra piccoli vasi di ciclamini fucsia e alcune piantine grasse molto spinose.
Giusy ha la stessa età di Marco. E' la prima di 6 tra fratelli e sorelle. La sua famiglia non ha grandi mezzi e per questo Giusy, una volta terminata la terza media, ha dovuto abbandonare gli studi e mettersi a lavorare per contribuire alle entrate economiche della sua famiglia. Suo padre è un manovale e sua madre una casalinga che di tanto in tanto, quando le è possibile, stira montagne di panni a pagamento.
Ogni giorno Giusy guarda dalla sua vetrina del negozio quello che fa Marco e spesso la sua fantasia la porta a sognarlo mentre attraversa quella strada che li divide entrando poi nel negozio di fiori per regalarle un girasole.
Quel ragazzo con la tuta blu suscitava in lei curiosità, voglia di scoprire chi fosse, cosa pensasse nei momenti in cui sembrava così assorto li appoggiato al muro dell'officina con la sua Nazionale in bocca. Marco era uno dei motivi per i quali lei ogni mattina si recava al lavoro con gioia......oltre ai fiori naturalmente.
Ma un giorno come tanti accadde che................?
Continua......mmmmmm Gebedia?
PS- chiedo venia per gli errori.........scritto di getto anche io e senza correggere
Giusy ha la stessa età di Marco. E' la prima di 6 tra fratelli e sorelle. La sua famiglia non ha grandi mezzi e per questo Giusy, una volta terminata la terza media, ha dovuto abbandonare gli studi e mettersi a lavorare per contribuire alle entrate economiche della sua famiglia. Suo padre è un manovale e sua madre una casalinga che di tanto in tanto, quando le è possibile, stira montagne di panni a pagamento.
Ogni giorno Giusy guarda dalla sua vetrina del negozio quello che fa Marco e spesso la sua fantasia la porta a sognarlo mentre attraversa quella strada che li divide entrando poi nel negozio di fiori per regalarle un girasole.
Quel ragazzo con la tuta blu suscitava in lei curiosità, voglia di scoprire chi fosse, cosa pensasse nei momenti in cui sembrava così assorto li appoggiato al muro dell'officina con la sua Nazionale in bocca. Marco era uno dei motivi per i quali lei ogni mattina si recava al lavoro con gioia......oltre ai fiori naturalmente.
Ma un giorno come tanti accadde che................?
Continua......mmmmmm Gebedia?
PS- chiedo venia per gli errori.........scritto di getto anche io e senza correggere
Ospite- Ospite
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Dunque, considerato che se aspettiamo Geb per il proseguo del racconto, Marco e Giusy fanno in tempo ad invecchià e non si incontreranno mai forse è meglio se passo a qualcun'altro......mmmmmmmmmmmmmmm vediamo, Kei?
Ospite- Ospite
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
... Marco inaspettatamente le parlo'.
In genere Marco era un ragazzo di poche parole, e ormai Giusy ci aveva fatto l'abitudine. Passava, sorrideva, salutava, andava via. Nonostante la profonda curiosita', saranno state poche le volte che si son scambiati piu' di un "Buongiorno" o "Buonasera" di pura circostanza.
Tuttavia lo stato mentale di Marco questa volta gli aveva acceso un'insolita voglia di socializzazione.
Non era un gran signore, era una persona schietta, per quanto educata, e ancora sporco delle tante sue "pazienti" meccaniche, oltre al solito saluto, fece un cenno con la mano che la invitava a raggiungerlo.
Le chiese come stava, le chiese se si era mai sentita come se le mancasse qualcosa, come se fosse intrappolata in un eterno ciclo di eventi in cui in fondo, cambiava poco, troppo poco. Le disse di quanto fosse rassicurante e al contempo inquietante la certezza che nel tempo niente sarebbe davvero esploso, ce che l'indomani sarebbero stati tutti li', a salutare un cliente soddisfatto, a segnare gli appunti su un pc obsoleto, a dare il proprio meglio in un campo senza conoscerne, in realta', tanti altri.
Non sapeva perche' questo genere di confessioni proprio a lei, senza fra l'altro fare neanche caso ad Arturo, che, dietro di loro, lucidando una marmitta, stava ascoltando in rispettoso silenzio. Giusy gli dava una sensazione di nuovo, di pace, come un raggio di sole, portava sempre nuovi colori nella sua vita, con i suoi vestiti sfavillanti, e il suo sorriso.
Una cosa tanto diversa dal rumore dei motori, dei macchinari, degli strumenti. Dalla puzza delle vernici, dell'olio, del grasso, a cui non faceva caso in quanto abituato, ma che tanto differivano dal profumo dolciastro fruttato che lei lasciava attorno a se.
Era come se sapesse, nel profondo, che sarebbe stata proprio lei, probabilmente, a tirarlo fuori da quella situazione di inquietudine e routine. Prima o poi, in qualche modo, un giorno...
Passo ad Angelica
In genere Marco era un ragazzo di poche parole, e ormai Giusy ci aveva fatto l'abitudine. Passava, sorrideva, salutava, andava via. Nonostante la profonda curiosita', saranno state poche le volte che si son scambiati piu' di un "Buongiorno" o "Buonasera" di pura circostanza.
Tuttavia lo stato mentale di Marco questa volta gli aveva acceso un'insolita voglia di socializzazione.
Non era un gran signore, era una persona schietta, per quanto educata, e ancora sporco delle tante sue "pazienti" meccaniche, oltre al solito saluto, fece un cenno con la mano che la invitava a raggiungerlo.
Le chiese come stava, le chiese se si era mai sentita come se le mancasse qualcosa, come se fosse intrappolata in un eterno ciclo di eventi in cui in fondo, cambiava poco, troppo poco. Le disse di quanto fosse rassicurante e al contempo inquietante la certezza che nel tempo niente sarebbe davvero esploso, ce che l'indomani sarebbero stati tutti li', a salutare un cliente soddisfatto, a segnare gli appunti su un pc obsoleto, a dare il proprio meglio in un campo senza conoscerne, in realta', tanti altri.
Non sapeva perche' questo genere di confessioni proprio a lei, senza fra l'altro fare neanche caso ad Arturo, che, dietro di loro, lucidando una marmitta, stava ascoltando in rispettoso silenzio. Giusy gli dava una sensazione di nuovo, di pace, come un raggio di sole, portava sempre nuovi colori nella sua vita, con i suoi vestiti sfavillanti, e il suo sorriso.
Una cosa tanto diversa dal rumore dei motori, dei macchinari, degli strumenti. Dalla puzza delle vernici, dell'olio, del grasso, a cui non faceva caso in quanto abituato, ma che tanto differivano dal profumo dolciastro fruttato che lei lasciava attorno a se.
Era come se sapesse, nel profondo, che sarebbe stata proprio lei, probabilmente, a tirarlo fuori da quella situazione di inquietudine e routine. Prima o poi, in qualche modo, un giorno...
Passo ad Angelica
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Keishiro questa non te la perdonerò!Ora mi dovrei leggere tutto il papiro sopra?
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Arturo da lontano guardava i due parlarsi.La fisionomia della ragazza gli diceva qualcosa ma era troppo distante per capire qualcosa di più.Così scivolo col suo carrello di auto in auto avvicinandosi senza farsi troppo notare a Marco e Giusy.
Fù allora che guardando da vicino la ragazza realizzò.
Cominciò a sudare freddo e un'imprecazione stava per scappargli ma riuscì con grande sforzo a controllarsi.
Non c'era alcun dubbio:quella ragazza era lei!
contunia Sonia.
Fù allora che guardando da vicino la ragazza realizzò.
Cominciò a sudare freddo e un'imprecazione stava per scappargli ma riuscì con grande sforzo a controllarsi.
Non c'era alcun dubbio:quella ragazza era lei!
contunia Sonia.
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
hemmm visto che è un po' che non si scrive ed a me sta cosuccia del racconto m'attizza... posso continuare io?
nessuno dice nulla...ok, continuo :
E fu risucchiato dal ricordo.... Quanto era passato? Un mese, era già trascorso un mese da quella sera ma la nausea che lo portava a stringere i denti era sempre in agguato, come se tutto fosse appena successo. C'era quell'angolo di marciapiede illuminato, sporco di varie tonalità di grigio e quell'assurda macchia rosa proprio al centro che sembrava messa li da un'artista ubriaco: una cicca che portava ancora l'impronta dei denti di chi l'aveva masticata, ancora, disgustosamente, lucida di saliva.
E poi quel suono: “Sploot”. E’ così che fa un guscio che si spacca…come aveva fatto a sentirlo malgrado il rumore del motore?
Sterile domanda: non era forse lui, Arturo, che si vantava di esser in grado d’indurre al sussurro qualsiasi ammasso mugugnante gli avessero affidato? Era lui…il mago e la sua macchina era il suo prodigio: silenziosa al punto tale di avergli fatto sentire quel maledetto “Pploot” che adesso continuava a riecheggiare al di sopra di ogni schiamazzo.
Pploot la luce che gli ferisce gli occhi dopo una notte passata a smaniare tra le lenzuola, pploot la porta del bagno che sbatte, pploot l’asse del wc rialzato mentre vomita la nausea che lo invade, pploot la bocca che chiude ogni volta che vorrebbe urlare, pploot, pploot…
Ce l’ha dentro quel pploot….dentro come il viso di quella ragazzina che ha investito, la stessa che adesso sta parlando con Marco, viva e senza nemmeno un graffio.
nessuno dice nulla...ok, continuo :
E fu risucchiato dal ricordo.... Quanto era passato? Un mese, era già trascorso un mese da quella sera ma la nausea che lo portava a stringere i denti era sempre in agguato, come se tutto fosse appena successo. C'era quell'angolo di marciapiede illuminato, sporco di varie tonalità di grigio e quell'assurda macchia rosa proprio al centro che sembrava messa li da un'artista ubriaco: una cicca che portava ancora l'impronta dei denti di chi l'aveva masticata, ancora, disgustosamente, lucida di saliva.
E poi quel suono: “Sploot”. E’ così che fa un guscio che si spacca…come aveva fatto a sentirlo malgrado il rumore del motore?
Sterile domanda: non era forse lui, Arturo, che si vantava di esser in grado d’indurre al sussurro qualsiasi ammasso mugugnante gli avessero affidato? Era lui…il mago e la sua macchina era il suo prodigio: silenziosa al punto tale di avergli fatto sentire quel maledetto “Pploot” che adesso continuava a riecheggiare al di sopra di ogni schiamazzo.
Pploot la luce che gli ferisce gli occhi dopo una notte passata a smaniare tra le lenzuola, pploot la porta del bagno che sbatte, pploot l’asse del wc rialzato mentre vomita la nausea che lo invade, pploot la bocca che chiude ogni volta che vorrebbe urlare, pploot, pploot…
Ce l’ha dentro quel pploot….dentro come il viso di quella ragazzina che ha investito, la stessa che adesso sta parlando con Marco, viva e senza nemmeno un graffio.
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Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Capitolo I - Marco Arturo Giusy
Marco non aveva compiuto ancora 18 anni, ma le auto non avevano segreti per lui. Di amici ne aveva pochi, definirli poi amici era una approssimazione, in realtà erano dei semplici conoscenti che si trascinava dai tempi delle elementari.
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e furono proprio i loro silenzi a far crescere la loro sintonia.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....eppure sentiva che gli mancava qualcosa... si, tutto il giorno con le mani nei motori, o sdraiato sul carrello sotto le macchine.
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
Arturo era un meccanico come non se ne trovano più. Oggidì le officine sembrano sale operatorie, con la reception e le poltroncine per i clienti in attesa, le signorine al computer e gli appuntamenti. I meccanici hanno tutti il camice, attaccano cavi e cavetti alla tua automobile, fanno un check-up di tutto ciò che non va e leggono la diagnosi su un monitor. Hanno le mani pulite, e bianche e pulite sono le pareti.
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
Fu quando si stava avvicinando il suo compleanno, che avrebbe segnato l'entrata nel mondo dei "grandi", che Marco si rese ad un tratto conto di aver sempre vissuto in una sorta di limbo, in un suo mondo totalmente privato da cui aveva escluso tutto ciò che lo circondava: niente amici, niente affetti familiari, nulla di nulla; una bolla riempita solo da silenzi, dagli sbuffi di fumo della sigaretta di Arturo, da pistoni e bielle intrise dell'acro odore dell'olio bruciato.
Queste riflessioni gli sorsero un giorno in cui se stava appoggiato alla porta dell'officina a cogliere il tepore di un pallido sole autunnale. In quel tratto di strada non c'era praticamente anima viva, non una macchina, non una persona; sembrava che tutti avessero deciso di chiudersi in casa per mutuo accordo, senza una ragione apparente.
Marco si sentiva a disagio e cercava di comprendere quella nuova inquietudine che gli nasceva dentro, quando improvvisamnete si senti osservato. Alzò gli occhi e vide due occhi sorridenti che lo guardavano dall'altro lato della strada: era Giuseppina, che tutti chiamavono Giusy, la commessa dell negozio di fiori che stava di fronte all'officina.
Giusy era uno dei tanti visi, quasi anonimi, che popolavano la sua vita, ma quel giorno, quel viso sorridente gli diede una pace interiore che non aveva mai provato in vita sua.
Giusy passava davanti all'officina ogni sera. Come ogni sera tornava a casa dopo una giornata spesa al negozio di fiori. Le piaceva quel lavoro perchè aveva sempre amato circondarsi del loro profumo e dei loro mille colori. In particolare amava i girasoli, grandi, di un colore giallo intenso e a volte, nei momenti morti della sua giornata lavorativa, ne prendeva uno dal grande vaso di ceramica posto vicino al tavolino che fungeva da cassa e lo portava sulla testa a mo di ombrello. Danzava col suo ombrellino fatto di petali gialli, roteava su se stessa seguendo le note scandite da una piccola radio posta sullo scaffale tra piccoli vasi di ciclamini fucsia e alcune piantine grasse molto spinose.
Giusy ha la stessa età di Marco. E' la prima di 6 tra fratelli e sorelle. La sua famiglia non ha grandi mezzi e per questo Giusy, una volta terminata la terza media, ha dovuto abbandonare gli studi e mettersi a lavorare per contribuire alle entrate economiche della sua famiglia. Suo padre è un manovale e sua madre una casalinga che di tanto in tanto, quando le è possibile, stira montagne di panni a pagamento.
Ogni giorno Giusy guarda dalla sua vetrina del negozio quello che fa Marco e spesso la sua fantasia la porta a sognarlo mentre attraversa quella strada che li divide entrando poi nel negozio di fiori per regalarle un girasole.
Quel ragazzo con la tuta blu suscitava in lei curiosità, voglia di scoprire chi fosse, cosa pensasse nei momenti in cui sembrava così assorto li appoggiato al muro dell'officina con la sua Nazionale in bocca. Marco era uno dei motivi per i quali lei ogni mattina si recava al lavoro con gioia......oltre ai fiori naturalmente.
Ma un giorno come tanti accadde che................?
In genere Marco era un ragazzo di poche parole, e ormai Giusy ci aveva fatto l'abitudine. Passava, sorrideva, salutava, andava via. Nonostante la profonda curiosita', saranno state poche le volte che si son scambiati piu' di un "Buongiorno" o "Buonasera" di pura circostanza.
Tuttavia lo stato mentale di Marco questa volta gli aveva acceso un'insolita voglia di socializzazione.
Non era un gran signore, era una persona schietta, per quanto educata, e ancora sporco delle tante sue "pazienti" meccaniche, oltre al solito saluto, fece un cenno con la mano che la invitava a raggiungerlo.
Le chiese come stava, le chiese se si era mai sentita come se le mancasse qualcosa, come se fosse intrappolata in un eterno ciclo di eventi in cui in fondo, cambiava poco, troppo poco. Le disse di quanto fosse rassicurante e al contempo inquietante la certezza che nel tempo niente sarebbe davvero esploso, ce che l'indomani sarebbero stati tutti li', a salutare un cliente soddisfatto, a segnare gli appunti su un pc obsoleto, a dare il proprio meglio in un campo senza conoscerne, in realta', tanti altri.
Non sapeva perche' questo genere di confessioni proprio a lei, senza fra l'altro fare neanche caso ad Arturo, che, dietro di loro, lucidando una marmitta, stava ascoltando in rispettoso silenzio. Giusy gli dava una sensazione di nuovo, di pace, come un raggio di sole, portava sempre nuovi colori nella sua vita, con i suoi vestiti sfavillanti, e il suo sorriso.
Una cosa tanto diversa dal rumore dei motori, dei macchinari, degli strumenti. Dalla puzza delle vernici, dell'olio, del grasso, a cui non faceva caso in quanto abituato, ma che tanto differivano dal profumo dolciastro fruttato che lei lasciava attorno a se.
Era come se sapesse, nel profondo, che sarebbe stata proprio lei, probabilmente, a tirarlo fuori da quella situazione di inquietudine e routine. Prima o poi, in qualche modo, un giorno...
Arturo da lontano guardava i due parlarsi.La fisionomia della ragazza gli diceva qualcosa ma era troppo distante per capire qualcosa di più.Così scivolo col suo carrello di auto in auto avvicinandosi senza farsi troppo notare a Marco e Giusy.
Fù allora che guardando da vicino la ragazza realizzò.
Cominciò a sudare freddo e un'imprecazione stava per scappargli ma riuscì con grande sforzo a controllarsi.
Non c'era alcun dubbio:quella ragazza era lei!
E fu risucchiato dal ricordo.... Quanto era passato? Un mese, era già trascorso un mese da quella sera ma la nausea che lo portava a stringere i denti era sempre in agguato, come se tutto fosse appena successo. C'era quell'angolo di marciapiede illuminato, sporco di varie tonalità di grigio e quell'assurda macchia rosa proprio al centro che sembrava messa li da un'artista ubriaco: una cicca che portava ancora l'impronta dei denti di chi l'aveva masticata, ancora, disgustosamente, lucida di saliva.
E poi quel suono: “Sploot”. E’ così che fa un guscio che si spacca…come aveva fatto a sentirlo malgrado il rumore del motore?
Sterile domanda: non era forse lui, Arturo, che si vantava di esser in grado d’indurre al sussurro qualsiasi ammasso mugugnante gli avessero affidato? Era lui…il mago e la sua macchina era il suo prodigio: silenziosa al punto tale di avergli fatto sentire quel maledetto “Pploot” che adesso continuava a riecheggiare al di sopra di ogni schiamazzo.
Pploot la luce che gli ferisce gli occhi dopo una notte passata a smaniare tra le lenzuola, pploot la porta del bagno che sbatte, pploot l’asse del wc rialzato mentre vomita la nausea che lo invade, pploot la bocca che chiude ogni volta che vorrebbe urlare, pploot, pploot…
Ce l’ha dentro quel pploot….dentro come il viso di quella ragazzina che ha investito, la stessa che adesso sta parlando con Marco, viva e senza nemmeno un graffio
Capitolo II - Nerone xxxx xxxx
Nerone era un randagio anziano, dopo tante avventure aveva deciso di fermarsi in quell'officina, in fondo quel ragazzo gli era simpatico e l'anziano non era male, non fosse stato per quelle cicche lanciate senza guardare, un paio di volte lo aveva colpito mentre sonnecchiava, ricorda ancora il puzzo del pelo bruciato, ora per riposare si allontana di una decina di metri dall'officina, lontano dalla gittata della cicca.
Nerone era capitato in quell'angolo di mondo dopo un lungo peregrinare, da cucciolo aveva trovato dei padroni magnifici, cibo e carezze in abbondanza, poi all'improvviso, si era ritrovato ai margini di una strada, circondato da un frastuono di odori fino ad allora per lui sconociuti, gli rimbalzavano dentro senza riferimenti, non sapeva dove era, dove erano le sue carezze, la sua ciotola, in un attimo tutto era perduto, svanito.
Nerone era cresciuto troppo, era diventato un bel cane dal pelo nero lucido e dal portamento elegante, durante il suo vagabondaggio alla ricerca delle sue carezze, si era lasciato dietro una discendenza numeros, non incontrava rivali, appena fiutava una cagnetta in calore, seguiva il richiamo e scacciava i pretendenti e dopo le prime avances, la preda era subito conquistata...Nerone, ci sapeva fare!
Ogni volta che Giusy gli donava una carezza, lui la fissava serio, erano le prime carezze ritrovate e non sapeva se lasciarsi andare, lsciarsi trasportare di nuovo ddal calore di quelle carezze o se bearsene senza restituire affetto, evitando di chiudere un cerchio che si sarebbe potuto rompere di nuovo.
Giusy parlava ore ed ore con Marco, Arturo scuriva in volto ogni volta che la vedeva arrivare e mugugnando si rintanava in magazzino.
Una sera Giusy si aprì Marco, e gli parlò di una sua sorella, gemella.....
Marco non aveva compiuto ancora 18 anni, ma le auto non avevano segreti per lui. Di amici ne aveva pochi, definirli poi amici era una approssimazione, in realtà erano dei semplici conoscenti che si trascinava dai tempi delle elementari.
Non amava il posto in cui era nato, ne amava la famiglia che lo stava crescendo...insomma l'unico suo rifugio era da Arturo, il meccanico che viveva in simbiosi con i motori.
Marco, come Arturo, non amava parlare e furono proprio i loro silenzi a far crescere la loro sintonia.
Arturo viveva nel garage dove lavorava, l'odore dell'olio bruciato aveva permeato tutto il suo essere, il grasso ricopriva interamente ogni centimetro quadrato del corpo che sporgeva dalla sua tuta da meccanico....eppure sentiva che gli mancava qualcosa... si, tutto il giorno con le mani nei motori, o sdraiato sul carrello sotto le macchine.
Era dopo l'imbrunire che pensava che forse quella realta' gli stava un po' stretta, ma poi passava e la mattina dopo si ricominciava. Ancora motori, ancora carburatori...
Non capi' quando comincio' a sentire il desiderio di cambiare, di evadere. Fu un pensiero che si era insinuato lentamente ma che col passare dei giorni diventava sempre piu' presente nella sua mente.
In fondo non c'era niente che lo tenesse veramente legato a quel posto.
Arturo era un meccanico come non se ne trovano più. Oggidì le officine sembrano sale operatorie, con la reception e le poltroncine per i clienti in attesa, le signorine al computer e gli appuntamenti. I meccanici hanno tutti il camice, attaccano cavi e cavetti alla tua automobile, fanno un check-up di tutto ciò che non va e leggono la diagnosi su un monitor. Hanno le mani pulite, e bianche e pulite sono le pareti.
L'officina di Arturo era rimasta ancora quella di un tempo, col pavimento di cemento unto e scivoloso, le pareti blu fino a metà altezza e più in su di un colore indefinibile che un tempo si suppone fosse bianco. Il minuscolo ufficetto con la sgangherata porta a vetri contava una scrivania vetusta, un classificatore di lamiera grigia, una poltrona mezza sfondata con braccioli e una malandata sedia di ferro.
Unica concessione alla "modernità", un decrepito IBM 486 che girava ancora con Windows 3.11, collegato ad una stampante ad aghi mezza smontata.
Qua e là, nell'ufficio e nell'officina, stinti poster con procaci fanciulle più o meno ignude. Su tutto regnava un pesante e rassicurante odore di grasso, olio e metallo, mischiato al fumo delle pestilenziali Nazionali che Arturo fumava in quantità. E come le fumava, strette tra pollice e indice, la mano aperta come in un buffo gesto di okay. Arturo stesso era officina, grasso e unto si erano depositati per decenni nelle pieghe della sua pelle al punto da resistere a qualsiasi lavaggio, così come la sua tuta blu di pesante cotone, che di blu aveva ormai ben poco.
Marco lo osservava costantemente, quando aspirava una sigaretta in 4 o 5 furiose tirate, al punto che la brace pareva un puntatore laser. Quando la cicca aveva esalato l'ultimo sbuffo di fumo, Arturo la lanciava col medio invariabilmente contro il cartello "Vietato fumare" che la legge imponeva, centrandolo sempre, anche a metri di distanza.
Nell'antro-officina, tra automobili oscenamente aperte, smontate, motori messi a nudo, l'arrivo di un cliente era sempre un evento per Marco. Ammirava lo stile di Arturo. Le gente del quartiere portava le sue utilitarie, ma talvolta per il passaparola arrivava anche qualche cliente sceso dai quartieri alti, gente sbrigativa, a volte arrogante, che spesso si interrompeva per conversare al cellulare. Per tutti, indistintamente, la prassi era la stessa: Arturo apriva il cofano, scrutava a lungo succhiando furiosamente la Nazionale senza una parola. Scuoteva il capo. Il cliente, trepidante per la sua creatura, chiedeva sommessamente:
"E' grave?"
Arturo attendeva l'ultimo tiro di sigaretta prima di rispondere
"E' un casino. Per quando ti serve?"
Dava del tu a tutti, di chiunque si trattasse.
"Per stasera ce la fa?"
"E' un casino ti ho detto. Bisogna vedere se si trova il pezzo. Ci vuole il pezzo capisci? Guarda qua."
Ed ora iniziava la vera recita.
Arturo mostrava una Mercedes semi-smontata, né vecchia né nuova.
"Vedi questa? E' la macchina del Dottore. Sono dieci giorni che aspetta, anche lui. E' il pezzo, capisci?"
Il cliente impallidiva. Chi fosse il Dottore lo sapeva solo Arturo, la Mercedes l'aveva comperata da uno zingaro e la teneva lì appositamente per mettere in piedi quella messinscena.
Il cliente diventava supplichevole.
"Non è proprio possibile?" chiedeva con un filo di voce
Prima di rispondere, Arturo attendeva come sempre l'ultimo tiro.
"Prova a passare stasera dopo le otto".
"Stasera non posso, ho un impegno..."
Arturo lo fissava senza espressione.
La sera, alle otto in punto il cliente era là. La sua auto, invariabilmente, lo attendeva fuori, il motore acceso che ronfava regolare e soddisfatto, pulita e lavata con cura da Marco.
Se ne andavano tutti, felici e soddisfatti, sparendo in fondo alla via. Arturo li seguiva con lo sguardo dal portone dell'officina, un mezzo sorriso storto sulla faccia, la Nazionale che bucava la notte cone un laser.
Ma non è di Arturo che narriamo....
Fu quando si stava avvicinando il suo compleanno, che avrebbe segnato l'entrata nel mondo dei "grandi", che Marco si rese ad un tratto conto di aver sempre vissuto in una sorta di limbo, in un suo mondo totalmente privato da cui aveva escluso tutto ciò che lo circondava: niente amici, niente affetti familiari, nulla di nulla; una bolla riempita solo da silenzi, dagli sbuffi di fumo della sigaretta di Arturo, da pistoni e bielle intrise dell'acro odore dell'olio bruciato.
Queste riflessioni gli sorsero un giorno in cui se stava appoggiato alla porta dell'officina a cogliere il tepore di un pallido sole autunnale. In quel tratto di strada non c'era praticamente anima viva, non una macchina, non una persona; sembrava che tutti avessero deciso di chiudersi in casa per mutuo accordo, senza una ragione apparente.
Marco si sentiva a disagio e cercava di comprendere quella nuova inquietudine che gli nasceva dentro, quando improvvisamnete si senti osservato. Alzò gli occhi e vide due occhi sorridenti che lo guardavano dall'altro lato della strada: era Giuseppina, che tutti chiamavono Giusy, la commessa dell negozio di fiori che stava di fronte all'officina.
Giusy era uno dei tanti visi, quasi anonimi, che popolavano la sua vita, ma quel giorno, quel viso sorridente gli diede una pace interiore che non aveva mai provato in vita sua.
Giusy passava davanti all'officina ogni sera. Come ogni sera tornava a casa dopo una giornata spesa al negozio di fiori. Le piaceva quel lavoro perchè aveva sempre amato circondarsi del loro profumo e dei loro mille colori. In particolare amava i girasoli, grandi, di un colore giallo intenso e a volte, nei momenti morti della sua giornata lavorativa, ne prendeva uno dal grande vaso di ceramica posto vicino al tavolino che fungeva da cassa e lo portava sulla testa a mo di ombrello. Danzava col suo ombrellino fatto di petali gialli, roteava su se stessa seguendo le note scandite da una piccola radio posta sullo scaffale tra piccoli vasi di ciclamini fucsia e alcune piantine grasse molto spinose.
Giusy ha la stessa età di Marco. E' la prima di 6 tra fratelli e sorelle. La sua famiglia non ha grandi mezzi e per questo Giusy, una volta terminata la terza media, ha dovuto abbandonare gli studi e mettersi a lavorare per contribuire alle entrate economiche della sua famiglia. Suo padre è un manovale e sua madre una casalinga che di tanto in tanto, quando le è possibile, stira montagne di panni a pagamento.
Ogni giorno Giusy guarda dalla sua vetrina del negozio quello che fa Marco e spesso la sua fantasia la porta a sognarlo mentre attraversa quella strada che li divide entrando poi nel negozio di fiori per regalarle un girasole.
Quel ragazzo con la tuta blu suscitava in lei curiosità, voglia di scoprire chi fosse, cosa pensasse nei momenti in cui sembrava così assorto li appoggiato al muro dell'officina con la sua Nazionale in bocca. Marco era uno dei motivi per i quali lei ogni mattina si recava al lavoro con gioia......oltre ai fiori naturalmente.
Ma un giorno come tanti accadde che................?
In genere Marco era un ragazzo di poche parole, e ormai Giusy ci aveva fatto l'abitudine. Passava, sorrideva, salutava, andava via. Nonostante la profonda curiosita', saranno state poche le volte che si son scambiati piu' di un "Buongiorno" o "Buonasera" di pura circostanza.
Tuttavia lo stato mentale di Marco questa volta gli aveva acceso un'insolita voglia di socializzazione.
Non era un gran signore, era una persona schietta, per quanto educata, e ancora sporco delle tante sue "pazienti" meccaniche, oltre al solito saluto, fece un cenno con la mano che la invitava a raggiungerlo.
Le chiese come stava, le chiese se si era mai sentita come se le mancasse qualcosa, come se fosse intrappolata in un eterno ciclo di eventi in cui in fondo, cambiava poco, troppo poco. Le disse di quanto fosse rassicurante e al contempo inquietante la certezza che nel tempo niente sarebbe davvero esploso, ce che l'indomani sarebbero stati tutti li', a salutare un cliente soddisfatto, a segnare gli appunti su un pc obsoleto, a dare il proprio meglio in un campo senza conoscerne, in realta', tanti altri.
Non sapeva perche' questo genere di confessioni proprio a lei, senza fra l'altro fare neanche caso ad Arturo, che, dietro di loro, lucidando una marmitta, stava ascoltando in rispettoso silenzio. Giusy gli dava una sensazione di nuovo, di pace, come un raggio di sole, portava sempre nuovi colori nella sua vita, con i suoi vestiti sfavillanti, e il suo sorriso.
Una cosa tanto diversa dal rumore dei motori, dei macchinari, degli strumenti. Dalla puzza delle vernici, dell'olio, del grasso, a cui non faceva caso in quanto abituato, ma che tanto differivano dal profumo dolciastro fruttato che lei lasciava attorno a se.
Era come se sapesse, nel profondo, che sarebbe stata proprio lei, probabilmente, a tirarlo fuori da quella situazione di inquietudine e routine. Prima o poi, in qualche modo, un giorno...
Arturo da lontano guardava i due parlarsi.La fisionomia della ragazza gli diceva qualcosa ma era troppo distante per capire qualcosa di più.Così scivolo col suo carrello di auto in auto avvicinandosi senza farsi troppo notare a Marco e Giusy.
Fù allora che guardando da vicino la ragazza realizzò.
Cominciò a sudare freddo e un'imprecazione stava per scappargli ma riuscì con grande sforzo a controllarsi.
Non c'era alcun dubbio:quella ragazza era lei!
E fu risucchiato dal ricordo.... Quanto era passato? Un mese, era già trascorso un mese da quella sera ma la nausea che lo portava a stringere i denti era sempre in agguato, come se tutto fosse appena successo. C'era quell'angolo di marciapiede illuminato, sporco di varie tonalità di grigio e quell'assurda macchia rosa proprio al centro che sembrava messa li da un'artista ubriaco: una cicca che portava ancora l'impronta dei denti di chi l'aveva masticata, ancora, disgustosamente, lucida di saliva.
E poi quel suono: “Sploot”. E’ così che fa un guscio che si spacca…come aveva fatto a sentirlo malgrado il rumore del motore?
Sterile domanda: non era forse lui, Arturo, che si vantava di esser in grado d’indurre al sussurro qualsiasi ammasso mugugnante gli avessero affidato? Era lui…il mago e la sua macchina era il suo prodigio: silenziosa al punto tale di avergli fatto sentire quel maledetto “Pploot” che adesso continuava a riecheggiare al di sopra di ogni schiamazzo.
Pploot la luce che gli ferisce gli occhi dopo una notte passata a smaniare tra le lenzuola, pploot la porta del bagno che sbatte, pploot l’asse del wc rialzato mentre vomita la nausea che lo invade, pploot la bocca che chiude ogni volta che vorrebbe urlare, pploot, pploot…
Ce l’ha dentro quel pploot….dentro come il viso di quella ragazzina che ha investito, la stessa che adesso sta parlando con Marco, viva e senza nemmeno un graffio
Capitolo II - Nerone xxxx xxxx
Nerone era un randagio anziano, dopo tante avventure aveva deciso di fermarsi in quell'officina, in fondo quel ragazzo gli era simpatico e l'anziano non era male, non fosse stato per quelle cicche lanciate senza guardare, un paio di volte lo aveva colpito mentre sonnecchiava, ricorda ancora il puzzo del pelo bruciato, ora per riposare si allontana di una decina di metri dall'officina, lontano dalla gittata della cicca.
Nerone era capitato in quell'angolo di mondo dopo un lungo peregrinare, da cucciolo aveva trovato dei padroni magnifici, cibo e carezze in abbondanza, poi all'improvviso, si era ritrovato ai margini di una strada, circondato da un frastuono di odori fino ad allora per lui sconociuti, gli rimbalzavano dentro senza riferimenti, non sapeva dove era, dove erano le sue carezze, la sua ciotola, in un attimo tutto era perduto, svanito.
Nerone era cresciuto troppo, era diventato un bel cane dal pelo nero lucido e dal portamento elegante, durante il suo vagabondaggio alla ricerca delle sue carezze, si era lasciato dietro una discendenza numeros, non incontrava rivali, appena fiutava una cagnetta in calore, seguiva il richiamo e scacciava i pretendenti e dopo le prime avances, la preda era subito conquistata...Nerone, ci sapeva fare!
Ogni volta che Giusy gli donava una carezza, lui la fissava serio, erano le prime carezze ritrovate e non sapeva se lasciarsi andare, lsciarsi trasportare di nuovo ddal calore di quelle carezze o se bearsene senza restituire affetto, evitando di chiudere un cerchio che si sarebbe potuto rompere di nuovo.
Giusy parlava ore ed ore con Marco, Arturo scuriva in volto ogni volta che la vedeva arrivare e mugugnando si rintanava in magazzino.
Una sera Giusy si aprì Marco, e gli parlò di una sua sorella, gemella.....
Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Letizia, questo era il nome che il beffardo destino aveva scelto per lei.
Il nome Giuseppina era stato scelto per tradizione in quanto nome della nonna paterna.
Il nome Letizia era stato una scelto in libertà;
ma la donna gravida, nel caotico subbuglio degli ormoni, aveva deciso di dare il nome di sua madre, di quella madre che tanto avrebbe voluto amare ma che poco aveva amato.
Giuseppina e Letizia crescevano paffute nel ventre materno da gemelle omozigote unite più che mai, talmente unite che a pochi giorni dalla loro nascita si dovette intervenire chirurgicamente per dividerle poichè unite fisicamente: la tempia destra dell'una era attaccata alla guancia sinistra dell'altra.
L'intervento durò 8 giorni e nessuna delle due gemelle perse la vita anche se una delle due, colei che era unita tramite la guancia, rimase brutalmente sfigurata.
E così Letizia crebbe sfigurata ed intelligente.
Il nome Giuseppina era stato scelto per tradizione in quanto nome della nonna paterna.
Il nome Letizia era stato una scelto in libertà;
ma la donna gravida, nel caotico subbuglio degli ormoni, aveva deciso di dare il nome di sua madre, di quella madre che tanto avrebbe voluto amare ma che poco aveva amato.
Giuseppina e Letizia crescevano paffute nel ventre materno da gemelle omozigote unite più che mai, talmente unite che a pochi giorni dalla loro nascita si dovette intervenire chirurgicamente per dividerle poichè unite fisicamente: la tempia destra dell'una era attaccata alla guancia sinistra dell'altra.
L'intervento durò 8 giorni e nessuna delle due gemelle perse la vita anche se una delle due, colei che era unita tramite la guancia, rimase brutalmente sfigurata.
E così Letizia crebbe sfigurata ed intelligente.
Elvira- Messaggi : 2140
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Re: La corona del pignone - racconto a più mani -
Lei e Giusy non si erano mai amate,no aspetta forse non e' cosi e' che i loro sentimenti si erano consumati poco a poco quando erano chiuse in quell'unica sacca un piccolo parco giochi riservato solo a loro,si erano accarezzate dondolandosi in quel riposante liquido protettivo ,una minuscola mano che si allungava spesso verso quel piccolo essere,spesso si domandava perche' non si staccasse mai da lei,ogni tanto era pervasa da un moto di rabbia,si sentiva prigioniera e le tirava dei piccoli calci ma senza cattiveria solo per respirarea fondo un attimo di intime liberta'.Il tempo le separo',Giusy cresceva in armonia con se stessa ,lei invece sempre rinchiusa ancora una volta in una prigione,quel maledetto cubo di vetro scorticata da tubi infilati nel suo corpo come degli stiletti che la facevano soffrire,lei li dentro e il mondo fuori!ma doveva resistere .
La vita di Letizia si e' srotolata come sempre accade ,inconsapevole del suo aspetto fisico,di quel marchio che il destino aveva dipinto sul suo volto come uno scarabocchio indelebile
Uno specchio .......un incontro il suo con la sua immagine che avrebbe accompagnato tutta la sua vita,le scelte,un confidente a cui esternare le sue paure il modo piu semplice per parlare con se stessa
La vita di Letizia si e' srotolata come sempre accade ,inconsapevole del suo aspetto fisico,di quel marchio che il destino aveva dipinto sul suo volto come uno scarabocchio indelebile
Uno specchio .......un incontro il suo con la sua immagine che avrebbe accompagnato tutta la sua vita,le scelte,un confidente a cui esternare le sue paure il modo piu semplice per parlare con se stessa
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